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Finché c'è musica: la guerra raccontata da una bambina

Di Sarah Barukh • gennaio 24, 2018

Il 27 Gennaio 1945 il campo di concentramento di Auschwitz fu liberato dall'esercito Sovietico. Finiva così un incubo iniziato cinque anni prima, causa della morte di milioni di uomini, donne e bambini innocenti. La Giornata della Memoria, istituita nel 2005 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, ricorda quel giorno per commemorare tutte le vittime della nazismo. In occasione della celebrazione, abbiamo chiesto alla scrittrice esordiente Sarah Barukh di raccontarci come è nata l'idea per il suo romanzo, 'Finchè c'è musica', la cui trama ha inizio proprio nel 1945, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. È la storia di una bambina che attraversa uno dei periodi più tumultuosi della Storia ed è capace di trovare - nonostante tutto - la propria strada in un mondo devastato dalla guerra, trasmettendo agli adulti la sua incrollabile fiducia nel futuro.

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Varsavia, 1943

Questo romanzo è un viaggio, una ricerca. All’inizio della Seconda guerra mondiale, Alice è una bambina che si pone tante domande: che cos’è la guerra? perché vive con la sua tata Jeanne? chi sono i suoi veri genitori? Ma la fine del conflitto non sembra portare risposte e, quando la madre infine la va a prendere, è l’inizio della disillusione. Di avventura in avventura, Alice dovrà lasciare la Francia e andare all’altro capo del mondo, dove un incontro del tutto inatteso rivoluzionerà la sua vita.

Finche ce musica
Sono arrivata a raccontare questa storia probabilmente perché i miei nonni sono stati segnati in modo drammatico dalla guerra, il che ha suscitato in me sentimenti diversi durante la mia infanzia: paura, pena, incomprensione. Poi mi sono resa conto che, ogni volta che si affrontava quel periodo, c’erano la guerra e le sue atrocità, a cui seguivano gli anni ’50, ossia il momento in cui le cose cominciavano ad andare meglio. Mi sono quindi interrogata su quel “buco” temporale, tra il ’45 e il ’49 e molte domande hanno cominciato a sorgere in me. Che cosa si prova una volta che si è celebrata la fine di un conflitto e si ricomincia la vita normale? Come si fa quando si è un eroe di guerra che, rientrando a casa propria, scopre che il suo vicino è un collaborazionista? Come si può ritrovare la normalità quando non si sa più che cosa sia? Questo periodo di instabilità, l’immediato dopoguerra, una piccola luce dopo il caos, rappresentava una sorta di vuoto propizio all’immaginazione e dunque alla scrittura.
Non volevo scrivere l’ennesimo romanzo sulla Shoah, ci sono già pubblicazioni e testimonianze che hanno raccontato in modo tristemente formidabile l’orrore dei campi di concentramento e della deportazione. Preferivo porre l’accento sull’impossibilità, per i sopravvissuti, di tornare ad una vita normale. Avevo letto, o forse sentito, la frase di un vecchio deportato che spiegava: «si vive sempre in relazione ai campi di concentramento: che ci perseguitino o che si abbia deciso di allontanarsene, tutto è in funzione dei campi». Speravo quindi di trovare un personaggio libero da questa prigione da cui non sembra possibile uscire, per raccontare questa contraddizione, questo straniamento. Ma poteva esistere una figura così? Uno straniero? Una persona rimasta ai margini del conflitto?
Poi mi è ritornata in mente una scena della mia infanzia: avrò avuto una decina d’anni, ero in Normandia con la mia famiglia, stavamo facendo merenda in un bel giardino, a casa di amici dei miei nonni. La mia sorellina, di cinque anni, si avvicinò a una di loro indicando l’avambraccio di Ida, su cui era inciso un lungo tatuaggio fatto di cifre e lettere. Guardando la donna, la bambina, convinta di aver svelato un mistero, esclamò: «Oh, ma è come quello delle mucche!». Un gelo improvviso percorse il gruppo sotto il sole caldo dell’estate, ma nessuna spiegazione intervenne a contraddire mia sorella. Qualcuno propose di mangiare ancora un po’ di dolce, per passare ad altro, in fretta.
Da questo ricordo mi è derivata una certezza: Alice, il mio personaggio principale, doveva essere questa bambina innocente che percepisce la sofferenza intorno a lei, che cerca di comprendere perché gli adulti sono incapaci di vivere, ma si scontra contro dei muri di silenzio. La Shoah, i campi di concentramento, sono stati degli orrori in sé, ma l’orrore si è trasmesso di generazione in generazione perché ha creato dei tabù, dei dolori sordi, dei comportamenti nevrotici comprensibili ma distruttivi, sia per i vecchi deportati che per le famiglie che li hanno “ritrovati”. Metto le virgolette perché le persone che sono tornate non erano più le stesse, eppure bisognava continuare a vivere, insieme.
Così Alice, che durante tutto il periodo della guerra ha vissuto nascosta nella campagna francese immaginandosi la madre, mai conosciuta, come una donna bellissima e perfetta, cade dalle nuvole quando Diane, una persona abbattuta e fredda, va a prenderla per riportarla con sé a Parigi. La bambina, che ha tanto sognato la futura e meravigliosa vita con la sua mamma, prova una tremenda delusione e resta isolata in un dolore palpabile ma che nessuno le spiega… fino che non succede qualcosa. Una partenza per l’altro capo del mondo e l’incontro con lo zio Vadim che sconvolgerà la sua vita.
I libri mi hanno sempre accompagnato, in tutta la mia vita. Alcuni sono tuttora dei rifugi, degli amici. Spero che Alice diventerà l’amica di qualcuno dei miei lettori.
Sarah Barukh vive a Parigi e lavora nell’ambito della comunicazione. 'Finché c’è musica' è il suo primo romanzo.
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