Michael Connelly e la trasformazione del noir
Chi s'interessa di sogni dovrà riconoscere come fenomeno comune che essi testimoniano di nozioni e ricordi che riteniamo di non possedere durante la veglia.
Sigmund Freud
"Senti, domattina il caso sarà sul tavolo di quelli dei Furti. Perché non lasci che ci pensino loro?" - "Perché non lo faranno".
Michael Connelly
La notte è un mondo diverso, che al tempo stesso contraddice e completa il giorno. Ciò è vero in una dimensione tanto privata quanto collettiva. Le tenebre nascondono e al tempo stesso stanano. Sia a livello consapevole che inconscio, di notte compiamo ciò non dovremmo fare (gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie, recitava il prologo di Giovanni) e che spesso coincide con ciò che vorremmo veramente compiere. I crimini nelle strade e nei nostri sogni. Nella sua biografia intellettuale- una delle prime- dell’ammirato Sigmund Freud, Stephan Zweig già agli inizi del ‘900 coglieva la profonda somiglianza tra l’analista e il detective, così come tra il paziente e il criminale. I primi due indagano indizi, farsi lasciate a metà, lapsus e contraddizioni; i secondi negano, accennano, e, magari in modalità tortuose, desiderano confessare.
Lo Zweig che avrebbe scritto Sovvertimento dei sensi e Bruciante Segreto (da cui Kubrick voleva trarre un film) non si sbagliava. È significativo che le azioni della notte - si tratti del mondo del sogno o quello effettivo del crimine - vengano sempre analizzate alla e dalla luce razionale del giorno dopo. A livello sociale questa funzione si incarna appunto negli analisti o, appunto, nell’ispettore di polizia. È l’incipt di tanti polizieschi di Van Dine o Agatha Christie: investigatore e criminale agiscono spesso in momenti ben distinti, e il primo sopraggiunge il mattino dopo a ricostruire con l’immaginazione, l’esperienza e la scienza, le gesta e le motivazioni dell’altro.
Ma non solo. Fin dai tempi dei Delitto della Rue Morgue di Poe o dello Sherlock Holmes di Doyle, anche il detective (parola che dobbiamo anche al Casa Desolata di Dickens per essere entrata nell’uso comune) è una creatura della notte stessa, uno strano esule dal consorzio comune, con ferite, drammi e ossessioni che spesso lo rendono indistinguibile da color cui dà la caccia. A questa dimensione ricorrente, Michael Connelly, creatore di uno dei piú celebri investigatori noir, Harry Bosch, impartisce una divertente variazione nel suo ultimo romanzo, L'ultimo giro della notte (Piemme), incentrato su una nuova protagonista, una poliziotta che, al pari di certi tassisti o medici, lavora di notte. È dunque spesso la prima ad accorrere sulla scena della violenza, ma la regola accennata poco sopra risulta ancora valida. Il giorno esige comunque di avere l’ultima parola:
I detective del turno di notte, detto anche l’ultimo spettacolo, si spostavano da un caso all’altro, ovunque ce ne fosse bisogno, per occuparsi della stesura dei primi rapporti o per confermare i suicidi. Ma non potevano mai tenersi un caso.
Ma la Ballard di Connelly, davanti a quelli che parrebbero gli ennesimi frammenti sconnessi e violenze disparate e che invece lasciano intravedere un orizzonte unitario e sinistro, non ha alcuna intenzione di cedere l’indagine. Ciò le farà scoprire che anche quello sfondo cupo e ancora indefinibile non avrà alcuna intenzione di lasciare lei, invadendo la sua vita come una marea silenziosa. Il tema dell’ultima sentinella della notte, quella che scruta nelle ore buie che precedono l’alba, è un tema antico come l’Agamennone di Eschilo e l’Amleto di Shakespeare, due testi profondamente legati agli abissi del delitto e della colpa. E uno dei passaggi piú interessanti di questa nuova opera di Connelly è a sua volta una metafora esplicitamente meta letteraria. La “vocazione” di Ballard alla polizia investigativa è quella di una narratrice e lettrice che non può piú limitarsi ad assistere e registrare:
Il detective incaricato aveva testimoniato, raccontando tutte le torture che la vittima aveva dovuto sopportare prima di morire. E a un tratto si era messo a piangere. Non era uno show per ingraziarsi la giuria, perché non c’era alcuna giuria, solo un giudice che doveva decidere se il caso era abbastanza solido per un processo. Vedendo piangere quel detective, Ballard si era resa conto che non voleva piú limitarsi a scrivere articoli e indagini. E il giorno dopo aveva fatto domanda per entrare nell’accademia di polizia, per diventare una detective.
Un dettaglio che parrebbe secondario, e invece sottende ed esprime un’intera concezione della scrittura poliziesca. È questa infatti l’anima del noir, che lo differenzia da altre modalità e sfumature di quello che in Italia è ancora noto come “Giallo” (dalla scelta Mondadori di rendere i volumi facilmente identificabili). Il lettore magari si aspettava solo di godersi le emozioni forti d’una vicenda cupa. E invece la pietà e l’orrore lo coinvolgono in un viaggio dolorosamente personale.
Ma dove nasce il noir? Per definirlo occorre anzitutto specificare che il romanzo investigativo (genere che comprende una gamma ben piú vasta del mero poliziesco) nasce all’incrocio di molti mondi e costituisce uno dei grandi cortocircuiti dell’immaginario collettivo moderno. Come già intuirono Gramsci e Chesterton, il racconto e il romanzo investigativo hanno compiuto in prosa ciò che il Baudelaire dei Fiori del Male aveva espresso in poesia, la scoperta della città come grande e definitivo orizzonte dei rapporti umani e del loro contrario, il crimine e la solitudine. Ma al grande e principale filone, imperniato essenzialmente sulla dinamica repressiva del Sorvegliare e punire di Focault per cui, come notava Sciascia nel suo Il Metodo Maigret, il lettore gode nel vedere il criminale consegnato alla giustizia e al tempo stesso parteggia perché riesca a eluderla) si accompagna da subito, ed emerge sempre piú, quello che accennavamo prima.
Gli investigatori non sono solo gli apollinei rappresentati dell’ordine diurno, che riescono a spiegare e incarcerare le potenze dionisiache del crimine. Essi stessi sono uomini spezzati, che comprendono dall’interno gli strazi e le pulsioni che hanno indotto altri a delinquere. Conoscono il fallimento e l’umiliazione, e spesso vivono esistenze non meno caotiche e autodistruttive di coloro a cui danno la caccia. Su questo sfondo nero - appunto - le poche consolazioni ancora afferrabili - una sigaretta osservando un temporale come nello sci-fi noir Altered Carbon di Richard Morgan, una notte di sesso, un’amicizia che resiste, spiccano con dolorosa intensità- echeggiano ciò che vita potrebbe ancora essere.
Anche questa finestra immaginativa ha varie sfumature e gradi: dalla profonda empatia di uomini fondamentalmente buoni come il Marlowe de Il grande sonno di Chandler o il Maigret di Simenon e il Montalbano di Camilleri agli sbirri tragicamente corrotti di Nesbo o Ellroy. ll grande nulla, ambientato nell’America maccartista, si chiudeva col protagonista che, dopo una serie di indagini nel sottobosco omosessuale, capiva che sarebbe stato sottoposto a sua volta alla macchina della verità, e pur di non confessare di essere omosessuale a sua volta, si tagliava la gola con un rasoio. L’investigatore può finire davanti a uno specchio, e scoprire di essere egli stesso l’investigato. Il risolutore di misteri è egli stesso l’ultimo enigma. Come nell’Edipo Re dal quale Freud trasse appunto l’immagine per il suo complesso piú celebre.
Edoardo Rialti (1982) è critico letterario presso "Il Foglio" e "L'Indiscreto" e traduttore per le Mondadori, Rizzoli, Marietti, Lindau. Ha curato e tradotto opere di G. R. R. Martin, P. Brown, J. Abercrombie, W. Shakespeare e O. Wilde, ed è autore delle biografie letterarie di J. R. R. Tolkien, C. S. Lewis, G. K. Chessteron e C. Hitchens.